A filo d'erba

di Stefano Catone

Sono tornato sulla rotta balcanica: ecco cosa ho visto

«Vedi quelli che sembrano fori causati da proiettili sulle facciate di quel palazzo… Sono esattamente fori causati da proiettili». Conclude la frase Greta, volontaria dei Corpi Civili di Pace che si trova a Bihać, Bosnia, da oltre un anno. Partiti per attuare un progetto di dialogo e riconciliazione – quei proiettili e quella violenza, quelle cicatrici non ancora sanate – in pochi mesi sia i Corpi Civili di Pace che la popolazione locale hanno dovuto cominciare a lavorare a un altro progetto e cioè l’accoglienza di centinaia, poi migliaia di migranti che si sono concentrati al confine tra Bosnia e Croazia. È la purtroppo famosa rotta balcanica, attraverso la quale, dal 2015, sono arrivate in Unione europea centinaia di migliaia di persone, e che l’Unione europea pensava di aver bloccato stringendo, nel marzo 2016, un patto con la Turchia: voi bloccate i migranti, noi vi diamo un bel po’ di soldi. La rotta balcanica, però, non si è mai chiusa, ma ha battuto nuove strade e nuovi sentieri che ora portano qui, a Velika Kladuša e a Bihać. Velika Kladuša, feudo del controverso Fikret Abdić, condannato per crimini di guerra e ora sindaco della città. Bihać, dichiarata “zona sicura” da una risoluzione dell’Onu, ma comunque stretta in un assedio che durò dal giugno del 1992 all’agosto del 1995, causando oltre quattromila morti e dispersi. In Bosnia e Erzegovina, secondo fonti governative, si contano ancora poco meno di centomila sfollati.

Il mio reportage continua sul sito de Linkiesta.

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