A filo d'erba

di Stefano Catone

Kelibia, confine di nessuno

Subotica, 140mila abitanti, confine nord della Serbia. Dall’altra parte, l’Ungheria, l’Unione Europea.

Nella zona si trovano attualmente circa 1200 migranti bloccati. Afghani, Siriani, Pakistani, soprattutto. 200 in città, 300 nel campo al confine di Kelibia, 700 nel campo al confine di Horgos. I campi sono di tipo informale, l’accesso è assolutamente libero. Le autorità governative serbe, però, controllano e pattugliano la zona. E allontano le persone come noi dalla “border zone”.

Kelibia si trova a ovest di Subotica. A duecento metri dalla frontiera, in prossimità di un minimarket, c’è un punto d’appoggio costituito da una roulotte di un’associazione serba che assicura connessione Wi-Fi e elettricità.

È qui che si ritrovano i volontari ed è qui che affluiscono i bambini. Si gioca assieme: una palla, due squadre, dei colori e dei disegni. Dei palloncini. Il più piccolo che troviamo è un neonato: dieci giorni.

Con gli altri volontari di Speranza – Hope for children entro facilmente nel campo, che ha trovato naturale collocazione a lato della strada, a un passo dalla frontiera. Non c’è nulla a indicarlo, nulla a sconsigliarci di proseguire.

Ci addentriamo lungo il sentiero. Il confine con l’Ungheria è una rete metallica ed è filo spinato. Ci sono dei container blu, oltre il confine.

Ci spiegano che vengono fatte passare 15 persone al giorno, sulla base di una lista che prima veniva stillata dai migranti stessi, ora dalle autorità. Queste quindici persone vengono comunque trattenute dalle autorità ungheresi (ecco a che servono i container), da poche ore fino a 30 giorni, ci racconta un ragazzo siriano, in stato di fermo in quanto irregolari. La cosa sembra avere una chiara finalità dissuasiva.

“Ne sei consapevole perciò. Sei pronto?”.
“Sì. Cos’altro dovrei fare?”, è la risposta.

Di fronte a noi vediamo agenti della polizia serba.

Una donna siriana frigge delle verdure sopra un fuoco acceso per terra, all’esterno della propria tenda. Prepara un piatto a base di riso, ci dice. E ci chiede se vogliamo favorire, quando sarà pronto. Superare il confine con i passatori (“smugglers”) dalla Macedonia alla Serbia è costato 2000 euro a persona: lei, il marito, il bambino.

C’è una piccola fontana. Le donne lavano indumenti e vettovaglie. Una di loro ci ferma, ci racconta di aver perso il marito in Turchia. Diciamo alle donne di raggiungerci il giorno successivo, fuori dal campo, per valutare assieme le esigenze. La signora ci invita ad entrare nella sua tenda, ma è in quel momento che un agente della polizia serba, in divisa, ci sorprende alle spalle e senza molti complimenti ci chiede i passaporti. Torna dopo qualche minuto, accompagnato da una traduttrice della IOM. Gli spieghiamo chi siamo, cosa siamo lì a fare, ma non ce n’è: o ce ne andiamo, o ci arresta.

Scegliamo la prima. E prendiamo la strada per Horgos.

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