A filo d'erba

di Stefano Catone

Lontani dagli egoismi territoriali per ricostruire una comunità planetaria

«Quando mi dicono che dobbiamo “aiutarli a casa loro” resto sempre interdetto e mi chiedo in quale casa e chi dovrebbe aiutarli». Lucio Cavazzoni, già presidente di Alce nero, a margine del Politicamp di Reggio Emilia torna sui contenuti del suo intervento. La mia intervista:

 

Aiutiamoli a casa loro?

«La terra è casa per i piccoli agricoltori, tanto in Italia quanto nel resto del mondo, la terra è casa, ed è per questo motivo che non penserebbero mai e poi mai di avvelenarla, minimizzarla, distruggerla. Eppure la terra sta scomparendo, come casa e come opportunità di sostentamento e sviluppo».

C’è qualcuno che sta distruggendo la loro casa?

«Certo. C’è il cambiamento climatico che causa siccità devastanti, che genera conflitti e guerre dato che scatta una corsa alle risorse: in più di metà della Siria non piove da tre anni. E c’è un’altra corsa alle risorse, il “land grabbing”, cioè l’accaparramento di terre da parte di grandi imprese multinazionali che applicano all’agricoltura i processi dell’industria: comprano terre, espellono i contadini e coltivano queste terre per produrre canna da zucchero, mais e soia. Non disponiamo di dati sicuri, ma le stime parlano di una quota compresa tra centoventi e duecento milioni di ettari di terra sottratti in Africa; per fare un paragone, l’Italia dispone di dodici milioni di ettari coltivabili: stiamo distruggendo i fondamentali per poter sopravvivere».

Come mai proprio canna da zucchero, mais e soia?

«La canna da zucchero viene utilizzata per produrre “biofuel”, che ci spacciano poi come fonte di energia pulita, dimenticandosi i danni subiti dai contadini “a casa loro”. Il mais e la soia servono, oltre che per produrre biofuel, per l’alimentazione animale: secondo alcune stime, viviamo in un pianeta in cui oltre la metà della produzione di queste tre materie prime serve ad alimentare macchine, automobili, bovini, suini».

Gli allevamenti, però, lì facciamo a casa nostra.

«Esattamente, perché gli allevamenti devono essere presidiati: è il mangine che proviene da Africa, Asia e Sud America»

E così ci si ritrova senza terra, quindi senza casa, e l’unica opzione resta la migrazione.

«In buona parte del mondo è saltata completamente la distinzione, del tutto teorica, tra la migrazione per motivazioni climatiche e ambientali o politiche. In Africa le cause politiche sono l’estrazione e la rapina delle materie prime: nessuno dice che le estrazioni più invasive vanno di pari passo con lo sgombero di persone che vivono nel raggio di centinaia di chilometri. Nelle montagne peruviane, il percolato che proviene dalle miniere ha causato lo sfollamento di persone che vivevano nelle valli per centinaia di chilometri. Ci sono devastazioni su larga scala che non possono essere ignorate».

Se ci sono devastazioni, qualcuno dovrebbe impegnarsi per ricostruire.

«Di sicuro non possono essere i governi degli stati nazionali così come li conosciamo ora. Quando gli europei se ne sono andati dall’Africa, non così tanto tempo fa, hanno lasciato sul campo morte, violenza e atrocità. Ci sono intere generazioni che, anche per responsabilità nostra, sono cresciute in campi profughi: che futuro possono immaginare quelle persone? E chi ha, ora, la necessaria credibilità per intervenire in quei paesi?».

La cooperazione è perciò una finzione, un modo come un altro per avere la coscienza pulita?

«Assolutamente no: la cooperazione è uno strumento fondamentale e sarà decisiva per il futuro di quelle comunità – e anche della nostra comunità – se non sarà guidata dagli stati, ma se sarà una cooperazione popolare: l’obiettivo deve essere molto più alto di quello attuale e la nostra azione deve essere in grado di coinvolgere soggetti e comunità con lo scopo di restituire a quelle comunità la cui casa è stata devastata la capacità di riacquisire un ruolo nel loro territorio. Un ruolo sociale, culturale, storico. Penso alle cooperative latinoamericane: non sono cooperative di vendita, ma si occupano di sviluppo territoriale, di elevare la qualità del luogo in cui incidono, che siano città o campagne: dobbiamo sperimentare cose in questo senso».

Qual è il loro segreto?

«La grande forza di questi produttori è che producono cibo per “qualcuno”, per le proprie comunità, non per l’invisibile “mercato”. Al contrario, se mangiassimo solo cibo industriale diventeremmo un pezzo dell’industria e nulla di più, scordandoci completamente della cura della terra e della casa».

È una riflessione che vale anche per “casa nostra”?

«Mi è capitato di attraversare la Puglia e di vedere, lungo le strade, camion che vendono la frutta mettere le ciliegie a 1,60 euro al chilogrammo: capite che se il prezzo è questo vuol dire che stiamo parlando di un’economia che per forza bypassa tutta la filiera sindacale. Spagna, Portogallo, Grecia sono nella medesima condizione: la competizione al ribasso viene fatta a qualunque costo. Non voglio chiamarlo schiavismo, ma il lavoro a queste condizioni non si chiama lavoro, ma sfruttamento: c’è una manovalanza bianca e nera, in coda, pronta per farsi sfruttare e questo non a causa dell’immigrazione, ma perché sono saltate e sono state fatte saltare tutte le garanzie lavorative. Ai margini delle campagne del sud Italia, sulle strade, in assenza di marketing, questo sfruttamento risulta traslucido in tutta la sua crudezza».

Dal tuo racconto sembra di tornare a un mondo del lavoro che pensavamo di aver completamente superato, perlomeno qui da noi.

«La grande sfida è ricostruire un lavoro che abbia senso e che dia senso e prospettiva alla vita di ciascuno di noi. C’è un’enorme quantità di lavoro nero, irrefrenabile per via della competitività al ribasso, e un’enorme quantità di lavoro condannato in un limbo che si colloca tra lo schiavismo e l’insignificanza. Un ragazzo intervenuto al Politicamp, un fattorino, ha raccontato che una mattina ti alzi e “credi di essere stato licenziato”. “Credi”, capite? Non lo sai nemmeno! Ma questo è lavoro? Il lavoro è stato uno strumento per modificare lo stato delle cose presenti, per la crescita personale, è lo strumento per cambiare il mondo, non solo l’assoggettamento a una struttura verticale: dobbiamo riaffermare questa idea di lavoro».

Sentiamo parlare sempre più di sovranismo, di dazi, di confini militarizzati, di un’Unione europea da smantellare.

«Ecco: non pensiamo di farcela a protezione solo nostra. Non ce la facciamo: il mostro è planetario e quindi serve una protezione planetaria. In assenza di questa, è necessario porre il tema in termini europei. L’Unione europea si trova in uno stato di confusione enorme in questo momento: noi abbiamo il compito di costruire reti trasversali a quelle istituzionali e governative, perché c’è davvero miserevolezza e non possiamo accontentarci di questo».

Come vedi il futuro più prossimo?

«Ho il timore che rischiamo di avviarci verso una grande involuzione. Dobbiamo essere consapevoli che se salta l’Europa si fanno guerre, le abbiamo sempre fatte. Per questo dobbiamo rifiutare qualsiasi egoismo territoriale e abbiamo bisogno di ricostruire piani orizzontali con la gente, abbiamo bisogno di mettere in relazione comunità e interessi».

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