A filo d'erba

di Stefano Catone

I fantasmi di Afghan park

Belgrado è caldo e afa. Ma non stasera. Un acquazzone ha abbattuto la temperatura. Syrian park e Afghan park si sono svuotati. Le persone hanno trovato un posto dove passare la notte nei parcheggi a più piani e sotto i portici di un edificio.

C’è Shabir, tra di loro. È arrivato oggi a Belgrado dal Pakistan, dopo tre mesi di viaggio. Passati con mezzi di fortuna Iraq e Turchia, è arrivato via mare a Salonicco. “Ogni passaggio di frontiera, fatto con i passatori, mi è costato tra i mille e i duemila euro”, ci racconta. Da Salonicco, a piedi fino a Belgrado. Non viaggia da solo, Shabir. Con lui ci sono suo cugino e un amico. “Da Salonicco fino a Belgrado abbiamo praticamente sempre camminato nei boschi: di giorno si riposa, la notte si cammina”. Nessun problema ad attraversare il confine tra Grecia (dove gli sono state prese le impronte, e quindi dovrebbero essere rispediti se intercettati in altri paesi UE) e Macedonia, e nemmeno ad attraversare quest’ultima: “i macedoni sono stati molto ospitali con noi. Il vero problema è stato attraversare il confine serbo: siamo stati catturati due volte, prima dalla polizia e poi dall’esercito serbo. Non ci hanno trattato male, però. Sono stati molto gentili e ci davano anche qualcosa da mangiare”.

Infine, l’arrivo a Belgrado. Ci chiede com’è la situazione qui e, soprattutto, com’è la situazione al confine ungherese, dove siamo stati nei giorni scorsi. La nostra descrizione non lo dissuade in alcun modo. È consapevole dello stato in cui si trovano i campi e delle pratiche messe in atto dalla polizia ungherese. “So che tanti miei connazionali e tanti afghani arrivano qui e tornano indietro, demoralizzati dalla mancanza di prospettiva. Ma noi no: questo viaggio ci sta costando troppo e perciò arriveremo fino in Spagna”.

Perché la Spagna? “Perché un amico che sta lì ci ha detto che dopo due anni che si è lì si acquisiscono molti diritti, anche quello di tornare in patria e rientrare in Spagna. In Pakistan ho lasciato tutta la mia famiglia. Siamo scappati perché la povertà aumenta sempre di più e, nonostante avessi un buon impiego, non c’è speranza per i miei figli”.

Shabir parla l’inglese meglio di me, perché ha lavorato per anni in un call center che vende servizi in Canada, dal Pakistan.

La mattina successiva Afghan park si è ripopolato. È grigio, del colore delle coperte distribuite dai volontari nella notte, ora avvolte attorno ai fantasmi che popolano questa terra di nessuno.

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