A filo d'erba

di Stefano Catone

Più grande di noi

Noodles: Come sta tua sorella?
Fat Moe: Sono anni che non la vedo, è una grande star adesso.
Noodles: Perché, non si capiva? I vincenti si riconoscono alla partenza. Riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su te?
Fat Moe: Io avrei puntato tutto su te.
Noodles: Eh… e avresti perso.
Fat Moe: Be’, sei stanco, buona notte.
Noodles: Buonanotte Moe, grazie.
Fat Moe: Che hai fatto in tutti questi anni?
Noodles: Sono andato a letto presto.

In tutti questi anni non siamo andati a letto presto e abbiamo fatto sogni molto agitati. Le ore piccole le facevamo con le nostre analisi. I sogni agitati erano lo scenario che queste elezioni ci hanno consegnato, uno scenario che – se ci pensate – è la perfetta prosecuzione del trend iniziato alla vigilia delle scorse elezioni politiche: cresce il Movimento 5 Stelle, cresce la destra in tutte le sue forme, arretrano inesorabilmente il centrosinistra, il Partito Democratico, la sinistra, i progressisti.

Nel mezzo, tra le ore piccole e i sogni agitati, c’erano (e ci sono) l’ossessione per le politiche pubbliche e l’ossessione per la strategia migliore per dormire sonni più tranquilli e preparare giorni migliori.

Su una cosa molti di noi avevano certamente ragione: questi cinque anni ci hanno imposto politiche pubbliche sbagliate in senso assoluto e sbagliate anche perché mettevano in discussione un’intera cultura di sinistra / centrosinistra /chiamatela come volete non mi interessa. E io questo non lo perdonerò mai, perché rimuovere questo è rimuovere me stesso, la mia identità. La lotta ai migranti, le scelte sul lavoro, quelle sulla scuola – per fare tre esempi – non possono essere superate da una “spruzzata”, per quanto positiva pur essendo una spruzzata, di unioni civili. Così come non possono essere superate da un cambio di leadership.

Su un’altra cosa, sicuramente, abbiamo sbagliato noi, con Liberi e Uguali. Siamo arrivati tardissimo e arrivare tardissimo ha generato effetti a catena: un programma non incisivo, delle priorità programmatiche che non sono emerse, una discontinuità non sufficientemente marcata. Un’incapacità di imporre una anche piccola correzione di quel trend di cui dicevo, nonostante le potenzialità del progetto.

L’esito delle elezioni ha spazzato via tutto e ci restituisce una sconfitta devastante dal punto di vista culturale, prima che politico. Si intuiva già durante la campagna chi fossero “i vincenti” e chi “i brocchi”. Si intuiva perché nel dibattito eravamo noi quelli strani, che cercavano di spiegare perché bisogna essere progressivi con la fiscalità e rigorosi e umani nell’accoglienza, mentre il discorso si muoveva sulla linea della flat tax e delle acque territoriali libiche.

Se le condizioni dello scenario resteranno immutate – diciamocelo chiaramente – continueremo a essere “i brocchi” già in partenza: quelli che parlano con frasi contorte, quelli che devono usare sempre almeno cinquanta parole in più dell’avversario per rispondere a “ruspa”. E non perché gli altri sono «bravi a fare comunicazione» (anche se spesso sono stati molto più bravi di noi), ma perché stiamo giocando la partita a casa loro, sul loro campo, con la loro tifoseria, alla quale si sono aggiunti molti dei nostri, ammaliati da una retorica muscolare che è stata rafforzata da politiche e parole altrettanto muscolari.

Leggete la cronaca (qui) di Annalisa Camilli sui fatti di Firenze: un bianco spara a un nero e lo ammazza, eppure è tutto normalizzato: la notizia non supera la soglia dell’interesse pubblico. C’è un profilo culturale da ricostruire che non può esaurirsi né in un congresso di una lista minoritaria e neppure in un cambio di leadership, che sia singola o collettiva. C’è un processo più ampio da imbastire, ripartendo dalle questioni più urgenti e senza rinnegare noi stessi, la nostra identità, le nostre provenienze. C’è un rinnovamento da promuovere in tutte le sedi («ripartire da zero», dice Paolo qui), che tenga saldi gli antichi valori e che abbia l’obiettivo di tramandare il fuoco, per cambiare le cose.

Nel mio piccolo continuerò ad occuparmi in particolare di accoglienza, per ricostruire quel legame di umanità che le politiche di destra hanno reciso. Lo farò con le compagne e i compagni di Possibile e con tutte le compagne e tutti i compagni delle avventure appena passate e di quelle che ci aspettano, a Varese e ovunque sia necessario, convinto che la sfida sia più grande di noi stessi e che così vada condotta.

Come diceva il saggio, «non bisogna avere fretta», la stessa degli scorsi mesi, «non si deve perdere tempo».

Scrivetemi come sempre a stefanocatone at gmail punto com. E iscrivetevi alla newsletter su accoglienza e migrazioni di Nessun Paese è un’isola (qui) e al mio canale Telegram (qui). Abbiamo tanto lavoro da fare insieme.

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