A filo d'erba

di Stefano Catone

«Caro amico ti scrivo»: della scrittura e dell’amicizia

Ieri sono intervenuto alla cerimonia di premiazione di «Caro amico ti scrivo», ottava edizione del concorso artistico e letterario rivolto ai detenuti degli istituti penitenziari della Lombardia. Sull’amicizia e sulla scrittura, ecco gli appunti del mio intervento.

 

Ho letto i racconti e li ho letti tutti d’un fiato. Non penso, d’altra parte, che si possa fare altrimenti: la lettura dell’insieme dei racconti regala, infatti, un racconto collettivo, legato da un unico filo conduttore.

Ci sono più voci, diversi toni, diversi stili, ma c’è una sola grande storia. C’è chi ha scritto a un amico che non vede da tempo. C’è chi ha scritto a tanti amici. C’è chi ha scritto a un amico che sembra essere immaginario. E c’è chi ha scritto semplicemente dell’amicizia, ricordando momenti dell’infanzia vissuti assieme, spiegando cos’è ora, per lui, l’amicizia, raccontando la propria storia personale.

Da molti racconti emerge il sentimento dell’amicizia – quella vera, non a caso spesso contrapposta a finte amicizie -, la vera amicizia come momento di liberazione personale: come se dal chiudersi in sé, da una storia individuale e “autodistruttiva” (scrive qualcuno) l’amicizia possa aprire a una vita piena e degna.

C’è una poesia di Raymond Carver, incisa sulla sua lapide, che si intitola “Ultimo frammento”, e dice:

Ultimo frammento

E hai ottenuto quello che

volevi da questa vita, nonostante tutto?

Sì.

E cos’è che volevi?

Potermi dire amato, sentirmi

amato sulla terra.

L’amicizia che traspare dalle lettere e dai racconti mi ha ricordato questo amore descritto da Carver, che non è solo l’amore tra due persone, ma un sentimento più ampio e profondo. Un sentimento che comprende le relazioni di amicizia, le relazioni familiari, ma anche la relazione con l’ambiente che ci circonda e il mondo in cui viviamo, con la natura ma anche con la società. È il sentirsi benvoluti, l’essere in pace con se stessi e con gli altri, il sentirsi a casa propria.

Spesso i racconti entrano letteralmente nelle case, nell’intimità famigliare. Altrettanto spesso, questa intimità famigliare è un’esperienza autodistruttiva, appunto, che si aggroviglia su se stessa, che si stringe sempre di più attorno al nucleo famigliare e al singolo individuo. Spesso, come dicevo, viene descritta una tensione tra vere e false amicizie. E ogni tanto si legge di rapporti d’amicizia che sembrano quasi legami d’amore, ma che – forse, questo non lo sapremo mai – non lo sono.

Tutti i testi, però, si concludono con elementi più o meno evidenti di consapevolezza. Alle volte basta un dettaglio che può sembrare inutile o banale, ma che in un racconto non lo è mai, a regalarci questa consapevolezza. Una sigaretta che si consuma, la citazione di un film, il tetto di una rimessa, l’ora esatta di un avvenimento, il nome di una ragazza, un libro, il ricordo di una telefonata e di una cornetta del telefono che si abbassa. Una grande precisione che ci spiega la presa di coscienza più di molte parole. L’istante in cui si è presa una decisione, un amore o un’amicizia (o forse più semplicemente “una persona”) che ci cambia la vita.

La vita è quella di ciascuno di noi ed è questo il bello della scrittura. Che pone tutte le vite di fronte a un foglio bianco. Ognuno può scriverci quello che vuole, può scriverci quello che non è stato, o quello che ancora non è. La scrittura, in questo senso, ci rende tutti uguali, ci mette tutti alla pari. Ci permette di esplorare il nostro passato ma, soprattutto, di esplorare il nostro futuro e, così, di iniziare a costruirlo.

foto di copertina da Varesenews.

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