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Quei rifugiati che fuggono dalla nostra violenza – A filo d'erba

A filo d'erba

di Stefano Catone

Quei rifugiati che fuggono dalla nostra violenza

La foto di copertina è opera di Stefania Prandi, per il progetto «Eritrean refugees in Ethiopia» pubblicato su Al Jazeera.

 

Siamo in piccole celle, pressati,
senza la luce del sole
chiuse le porte di ferro serrate.
E ovunque io guardi, non vedo che Italiani.

 

Fadil Hasin ash – Shalmani era un poeta libico, di Misurata, condannato a venticinque anni di reclusione per accuse non provate. Ne scontava sette da detenuto sull’isola di Favignana.

«Italiani, brava gente?» di Angelo Del Boca (Beat Edizioni, 2005) è un pugno nello stomaco della nostra identità di italiani e europei. L’ho letto perché ero e sono alla ricerca di qualche notizia in più sui campi di prigionia eritrei costruiti dagli italiani, e nei quali vengono impartite tuttora torture che hanno nomi italiani, torture raccontate da Alessandro Leogrande (La Frontiera) e Luca Rastello (La frontiera addosso). Del Boca si sofferma su uno di questi campi, il penitenziario di Nocra, dell’arcipelago delle isole Dahlak, a 55 chilometri al largo di Massua. I lavori per la trasformazione dell’isola in un campo di detenzione iniziarono nel 1887 (dopo primi “approcci”, l’Eritrea divenne colonia italiana nel 1890) e restò in funzione ininterrottamente (secondo Del Boca) fino al 1941. «Dal 1936, dopo l’occupazione italiana dell’Etiopia, accolse soprattutto soldati e funzionari del dissolto impero di Hailè Selassiè e, più tardi, guerriglieri […], notabili di basso rango, preti e monaci». La vita all’intero del campo era durissima, in primo luogo per le condizioni climatiche assolutamente proibitive, con temperature che raggiungevano – e raggiungono – i 50° centigradi, per la mancanza d’acqua e per l’alimentazione scarsissima, con tutto il corredo di malattie.

Una descrizione del campo è disponibile anche sul sito del “Ministero dell’informazione” (il cui motto è «Serving the truth») del regime eritreo:

Al campo di Nocra sono dedicati ampi passaggi di un report prodotto nel 2004 da Amnesty International, nel quale inoltre si legge, a conferma di quanto scritto da Leogrande e Rastello:

“Otto” (Italian for “eight”): the victim is tied with hands behind the back and left face down on the ground, but without the legs tied.

“Ferro” (Italian for “iron”): the wrists are bound behind the back with metal handcuffs while the victim lies on the ground face down and is beaten with sticks or whipped with an electric wire on the back and buttocks.

«Italian for». Non solo abbiamo costruito i campi di detenzione, ma abbiamo insegnato metodi di tortura che si tramandano, quasi che ci siano luoghi maledetti costruiti dagli uomini, nel mondo, in cui l’eredità della violenza più cupa non conosce interruzione. Anche i carcerieri portano lo stesso abito, lo stesso ghigno e indossano la stessa sete di sangue – ci si immagina.

I metodi di tortura sono stati descritti (da pagina 284) in un report delle Nazioni Unite del 2015, scritto da un’apposita commissione di inchiesta, nel quale ci sono anche le raffigurazioni delle torture. «The commission found that systematic, widespread and gross human rights violations have been and are being committed with impunity in Eritrea under the authority of the Government. Some of these violations may constitute crimes against humanity. […] The Government of Eritrea is responsible for these human rights violations» – il report è stato presentato con queste parole.

L’Italia non ha abbandonato l’Eritrea. Nel 2009 Fabrizio Gatti intervistava Pier Gianni Prosperini, allora assessore della giunta Formigoni in Lombardia. Vi consiglio di guardarla, questa inchiesta (qui), in cui Prosperini si dichiara amico del presidente eritreo (al governo dal 1993, senza che si siano mai tenute libere elezioni) Isaias Afewerki, che considera di fatto un governate illuminato, in cui benedice l’autoritarismo, in cui condanna chi scappa dal paese e in cui nega l’utilizzo della tortura. Prosperini è stato successivamente condannato per esportazione illegale di armamenti verso l’Eritrea.

Nel 2014 fa visita ad Afewerki il viceministro degli Esteri, Lapo Pistelli. Una visita storica, dato che si tratta «della la prima visita ufficiale di un esponente politico del Governo italiano in Eritrea dal 1997, dal viaggio dell’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro», con lo scopo di «rilanciare le relazioni bilaterali e provare a favorire un pieno reinserimento dell’Eritrea quale attore responsabile e fondamentale della comunità internazionale nelle dinamiche di stabilizzazione regionale». Si tratta dello stesso Lapo Pistelli che successivamente diventerà – suscitando polemiche – vice presidente di Eni.

Lapo Pistelli e Isaias Afewerki

Altro politico in visita ad Asmara è Aldo Di Biagio, senatore della scorsa legislatura, che ospite di un convengo organizzato da FareFuturo (“L’Italia e le sanzioni”) dichiarava:

Di Biagio è stato inoltre intervistato da un sito internet eritreo per rispondere a un’interrogazione sull’Eritrea depositata da Giuseppe Civati. Nell’intervista si cita don Mussie Zerai, prete e attivista per i diritti dei rifugiati, il quale, secondo l’intervistatore, «appears also related to the phenomenon of illegal migration, and animated by a strong anti-Eritrean feeling expressed with words that could be considered not appropriate to his alleged religious vocation». Tra i commenti all’intervista si legge «This pervert homosexual priest, Mussie Zerai , should be hanged at EDAGA HAMUS».

Aldo Di Biagio e Isaias Afewerki.

Di recente, anche il presidente della Fifa, Gianni Infantino, è stato ricevuto da Isaias Afewerki. Il ministero dell’informazione eritreo l’ha intervistato:

Your stay in Eritrea was rather short, but I hope it’s been fruitful. How was it?

It was short, yes, but it was very intense. I discovered a beautiful country I didn’t know of before. I discovered a little Italy in the architecture of Asmara. I discovered a warm population, very welcoming and hospitable. They seem very happy, smiley and extremely proud of their identity. I discovered a country that all in all is worthwhile working with.

Gianni Infantino e Isaias Afewerki.

Anche l’Unione europea sta rinsaldando le relazioni col paese del Corno d’Africa. La Norvegia ha “minacciato” il rimpatrio di rifugiati eritrei.

Amnesty International ha prodotto una mappa di strutture sospettate di essere centri di detenzione, in Eritrea.

Ci sono mappe anche dei centri di detenzione in Libia. Sappiamo dove sono. E chissà – mi chiedo rimettendo assieme i pensieri – se qualcuno si è già domandato chi li abbia costruiti, quei campi di concentramento in Libia. Magari potremmo scoprire altre nostre responsabilità, come nel caso della grade deportazione di massa organizzata da Soros e dalle Ong, che non ha nessun riscontro fattuale, se non nella nostra storia. Fadil Hasin ash – Shalmani, il poeta citato all’inizio, è stato infatti vittima di questa deportazione di dissidenti libici. Migliaia di persone che, per indebolire le rivolte, furono prelevate e – in assenza di processi o con processi del tutto sommari – letteralmente deportate in Italia.

Favignana, appunto, ma anche Gaeta, Ponza, le Tremiti e Ustica.

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